Il mio nome e’ Asher Lev di Chaim Potok
28 Dicembre 2019L’uomo col problema di Donald Honig
28 Dicembre 2019“Un brav’uomo è difficile da trovare” è un racconto che presenta i caratteri originali della letteratura di Flannery O’Connor il peccato, la grazia e la redenzione
In “Un brav’uomo è difficile da trovare” di Flannery O’Connor, una famiglia compie un viaggio in macchina attraverso il Sud degli Stati Uniti. Durante il viaggio, la nonna della famiglia insiste per fare una deviazione per visitare una vecchia casa che ricorda dalla sua giovinezza. Tuttavia, la sua insistenza porta la famiglia sulla strada sbagliata e li porta ad incontrare un gruppo di criminali fuggiti.
La storia esplora molti temi, tra cui la violenza, la redenzione e la grazia divina. Il titolo stesso, “Un brav’uomo è difficile da trovare”, suggerisce la difficoltà di trovare il vero bene nel mondo. La nonna, nonostante i suoi difetti, può rappresentare una sorta di moralità convenzionale, ma alla fine anche lei viene confrontata con la sua propria mancanza di compassione e con la realtà del peccato umano.
La narrazione è spesso oscura e piena di simbolismo, e molti critici hanno discusso su chi possa essere considerato il “brav’uomo” della storia e cosa significhi veramente essere “bravi” in un mondo segnato dal male e dalla violenza. La conclusione della storia è stata oggetto di molte interpretazioni, con alcuni lettori che vedono un momento di rivelazione o di grazia divina, mentre altri vedono solo un finale tragico e senza speranza.
La nonna non voleva andare in Florida. Voleva far visita a certi suoi lontani parenti nel Tennessee orientale e approfittava di tutte le occasioni per far cambiare idea a Bailey. Bailey era il figlio con cui viveva, il suo unico maschio. Era seduto a tavola, sull’orlo della sedia, curvo sulle pagine sportive arancione del Journal. “Ehi, Bailey, guarda, leggi un po’ qui,” disse la nonna, e si alzò con una mano esile sul fianco, sventolando con l’altra il giornale frusciante sopra la testa calva del figlio. “C’è un tizio che si fa chiamare il Balordo… E’ evaso dal penitenziario federale e si è diretto verso la Florida. Leggi un po’ cosa dicono che ha fatto, a quella gente. Leggi. Io non porterei i miei bambini dove scorrazza un delinquente simile. Non me lo perdonerei mai, se lo facessi”.
Bailey non alzò gli occhi dal giornale, e così la nonna girò sui tacchi e affrontò la mamma dei bambini, una ragazza in pantaloni, dalla faccia larga e innocente come un cavolo, incorniciata da un fazzoletto verde con due cocche in cima, a orecchie di coniglio. Era seduta sul sofà e dava da mangiare al pupo delle albicocche direttamente dal barattolo. “I bambini sono già stati in Florida,” osservò la vecchia signora. “Dovresti portarli in qualche altro posto, tanto per cambiare, così si farebbero un’idea del resto del mondo. Nel Tennessee orientale non ci sono mai stati.”
La mamma dei bambini fece finta di non sentire, ma il figlio di otto anni, John Wesley, un ragazzino tarchiato con gli occhiali domandò: “Se non vuoi venire in Florida perché non te ne stai a casa?” Lui e la bambina, June Star, stavano leggendo i fumetti sul pavimento.
“Non starebbe a casa neanche se la facessero regina per un giorno,” osservò June Star, senza alzare la testa gialla.
“Già, e voi cosa fareste se il Balordo vi pigliasse?” “Gli darei una sberla,” dichiarò John Wesley.
“Non starebbe a casa per un milione di dollari”, incalzò June Star. “Ha paura di perdere qualcosa. Deve sempre venirci dietro.”
“E va bene, signorina,” ribatté la nonna. “Questa me la ricorderò la prima volta che mi chiederai di arricciarti i capelli.”
June Star protestò che i suoi capelli erano ricci naturali.
La mattina dopo, trovarono la nonna già in macchina, pronta a partire. Aveva sistemato in un angolo la grossa valigia nera, che pareva una testa d’ippopotamo, e sotto aveva nascosto una cesta con dentro Pitty Sing, il gatto. Non aveva intenzione di lasciarlo solo in casa per tre giorni, perché lui avrebbe sentito troppo la sua mancanza e poi aveva paura che, strusciando casualmente contro un fornello a gas, morisse asfissiato. Suo figlio Bailey non ci teneva a scendere in un motel con un gatto.
La nonna sedeva al centro del sedile posteriore, tra John Wesley e June Star. Bailey, la mamma dei bambini e il pupo erano sul sedile anteriore. Lasciarono Atlanta alle otto e quarantacinque, col contamiglia che segnava cinquantacinquemilaottocentonovanta miglia. La nonna scrisse giù le cifre, perché pensava che sarebbe stato interessante al ritorno, sapere quanta strada avevano fatto. Impiegarono venti minuti per uscire dalla città.
La vecchia signora si mise a suo agio, togliendosi i guanti di filo bianco e deponendoli con la borsetta sulla mensola del finestrino posteriore. La mamma dei bambini era ancora in pantaloni e aveva ancora il fazzoletto verde in testa; la nonna, invece, portava un cappello alla marinara di paglia blu, con un mazzo di violette bianche sull’ala e un abito blu scuro a pentolini bianchi. Il colletto e i polsini erano di organdi bianco, orlato di pizzo, e alla scollatura era appuntato un tralcio di viole di stoffa lilla, che nascondeva un sacchetto di erbe odorose. In caso d’incidente, vedendola morta sulla strada, chiunque avrebbe capito subito che si trattava di una vera signora.
La nonna osservò che era una giornata ideale per andare in macchina, né troppo calda né troppo fredda, e ricordò a Bailey che il limite di velocità era di cinquantacinque miglia all’ora e che gli agenti della stradale si nascondevano dietro i cartelloni pubblicitari e le macchie d’alberi e si buttavano all’inseguimento senza dar tempo di rallentare. Poi, cominciò a far notare gli aspetti più interessanti del paesaggio: Stone Mountain, le pareti d’argilla rosso vivo, solcati da esili venature viola e le varie coltivazioni che formavano strisce di pizzo verde nei campi. Gli alberi erano pieni di luce bianco argentea e anche il più sparuto di essi scintillava. I bambini leggevano i fumetti e la madre si era di nuovo addormentata.
“Attraversiamo la Georgia alla svelta, così non dobbiamo guardarla troppo,” propose John Wesley.
“Se io fossi un bambino, non parlerei dello stato dove sono nato,” disse la nonna. “Il Tennessee ha le montagne e la Georgia ha le colline.”
“Il Tennessee è un cesso pieno di buzzurri,” dichiarò John Wesley, “e anche la Georgia fa schifo.”
“Ben detto,” convenne June Star.
“Ai miei tempi,” disse la nonna, incrociando le dita fragili e venate, “i bambini avevano più rispetto del loro stato, dei genitori e di tutto il resto. La gente si comportava bene, allora. Oh, guardate che bel cioccolatino!” esclamò indicando un bimbo negro, sulla soglia di una capanna. “Non è un quadro?” Tutti si voltarono a guardare il negretto dal finestrino posteriore. Lui agitò una mano.
“Non aveva le mutande,” osservò June Star.
“Probabilmente non ne ha neanche un paio,” spiegò la nonna. “I piccoli negri, in questo paese, non hanno tante cose come noi. Se sapessi dipingere ne farei un quadro,” concluse. I bambini si scambiarono i fumetti.
La nonna si offerse di tenere il pupo e la madre dei bambini glielo passò da sopra lo schienale. La nonna se lo piazzò su un ginocchio e lo fece ballare su e giù, parlandogli delle cose che vedevano. Roteava gli occhi, torceva la bocca e schiacciava il viso affilato, che pareva di cuoio, contro quello placido e liscio del piccolo. Di quando in quando, le indirizzava un sorriso distratto. Passarono un grande campo di cotone con cinque o sei tombe cintate nel mezzo, come un isolotto. “Guardate il cimitero!” esclamò la nonna, indicandolo. “Quello era il vecchio cimitero di famiglia, apparteneva alla piantagione.” “E dov’è la piantagione?” volle sapere John Wesley.
“Se n’è andata: via col vento,” rispose la nonna. “Ah, ah.”
Quando i bambini ebbero terminato tutti i fumetti che si erano portati dietro, aprirono il pacco della colazione e mangiarono. La nonna sgranocchiò un panino al burro d’arachide e un’oliva e non permise ai bambini di gettare la scatola e i tovaglioli di carta fuori dal finestrino. Quando non ci fu più niente da fare, giocarono a scegliere una nuvola e a far indovinare agli altri tre a che cosa somigliava. John Wesley ne scelse una che somigliava a una mucca e June Star indovinò, una mucca, e John Wesley disse di no, un’automobile; June Star protestò che barava e cominciarono a prendersi a schiaffi scavalcando la nonna.
La nonna disse che, se fossero stati buoni, avrebbe raccontato una storia. Quando raccontava una storia scuoteva la testa, roteava gli occhi ed era molto drammatica. Disse che, un tempo, quand’era signorina, era stata corteggiata da un certo signor Edgar Atkins Teagarden, di Jasper, Georgia. Disse che era un gran bell’uomo e un vero signore e che tutti i sabati pomeriggio le portava un’anguria con incise le sue iniziali: E.A.T.[1] Bene, proseguì, un giorno il signor Teagarden aveva portato l’anguria, ma non c’era nessuno in casa e così l’aveva lasciata sotto il portico d’ingresso ed era tornato a Jasper in calesse. Ma lei non l’aveva mai avuta la sua anguria, disse, perché un negretto vedendo le iniziali E.A.T. se l’era mangiata! L’aneddoto divertì un mondo John Wesley, che rise a crepapelle, ma June Star lo giudicò idiota. Disse che lei non avrebbe mai sposato un uomo che le avesse portato soltanto un’anguria il sabato. La nonna replicò che avrebbe fatto un affare, sposando il signor Teagarden, perché era un gentiluomo e aveva comprato le azioni della Coca-Cola appena erano comparse sul mercato ed era morto solo pochi anni prima, ricco sfondato.
Si fermarono al Tower, a mangiare panini con carne alla brace. Il Tower era una stazione di servizio con sala da ballo, mezza di legno e mezza di cemento e sorgeva in una radura alla periferia di Timothy. La dirigeva un grassone di nome Sammy Butts il Rosso, e disseminati per miglia lungo la statale, c’erano cartelli che dicevano: PROVATE LA FAMOSA CARNE ALLA BRACE DI SAMMY IL ROSSO. COME QUELLA DI SAMMY IL ROSSO NON CE N’E’. SAM IL ROSSO! IL CICCIONE DALLA RISATA CORDIALE! UN REDUCE! SAM IL ROSSO E’ IL VOSTRO UOMO!
Sam il Rosso era sdraiato sulla terra nuda davanti al Tower, con la testa sotto un camion, mentre una scimmia grigia, alta due spanne, squittiva poco lontano, incatenata a un albero di saponaria. La scimmia guizzò tra il fogliame e si arrampicò sul ramo più alto non appena vide i bambini saltar giù dalla macchina e correre verso di lei.
Dentro, il Tower era una stanza lunga e buia, con un banco a un’estremità, qualche tavolino all’altra e una pista da ballo nel mezzo. Si sedettero tutti a un tavolo di legno, vicino al juke-box, e la moglie di Sam il Rosso, una donna alta, dalla faccia bruciata, con i capelli e gli occhi più chiari della pelle, venne a prendere le ordinazioni. La madre dei bambini mise dieci cents nella macchina e suonò The Tennessee Waltz, e la nonna disse che quella musica le faceva sempre venir voglia di ballare. Domandò a Bailey se voleva ballare, ma lui si limitò a guardarla storto. Non aveva un’indole solare come lei e le gite lo rendevano nervoso. Gli occhi scuri della nonna erano molto lucidi. Dondolava la testa e fingeva di ballare da seduta. June Star disse di metter su qualcosa che andasse bene per il tip tap, così la madre dei bambini mise altri dieci cents nella macchina e suonò un pezzo allegro, e June Star andò sulla pista da ballo e fece il suo numero di tip tap.
“Ma che carina!” esclamò la moglie di Sam il Rosso, sporgendosi sopra il banco. “Ti piacerebbe abitare qui ed essere la mia bambina?”
“Ma nemmeno per sogno,” ribatté June Star. “Non vivrei in una catapecchia come questa per un milione di dollari!” E tornò di corsa al tavolo.
“Ma che carina!” ripeté la padrona, stirando educatamente le labbra.
“Non ti vergogni?” sibilò la nonna.
Entrò Sam il Rosso e disse alla moglie di piantarla di ciondolare al banco e di sbrigarsi con le ordinazioni dei signori. I pantaloni cachi gli arrivavano a metà dei fianchi e la pancia traboccava dalla cintola, come un sacco di grano, e dondolava dentro la camicia. Sam si avvicinò, si sedette a un tavolo poco distante ed emise una via di mezzo tra un sospiro e uno yodel. “Tempi duri,” disse. “Tempi duri!” E si asciugò a faccia rossa e sudata con un fazzoletto grigio. “Non si sa più di chi fidarsi al giorno d’oggi. Non vi pare?” “Certo la gente non è più quella di una volta,” approvò la nonna.
“La settimana scorsa, son venuti qui due tizi su una Chrysler,” raccontò Sam il Rosso. “La macchina era vecchia e scassata, ma di buona marca, e i ragazzi mi sembravano a posto. Mi hanno detto che lavoravano al mulino e gli ho dato la benzina a credito. Chissà poi perché l’hanno fatto…”
“Perché lei è un brav’uomo!” esclamò pronta la nonna.
“Già. Proprio così,” bofonchiò Sam il Rosso, come se la risposta l’avesse colpito.
Sua moglie arrivò con le ordinazioni, cinque piatti tutti insieme, senza vassoio, due per mano e uno in bilico sul braccio. “Non c’è un’anima di cui ci si possa fidare, in questo mondo creato da Dio,” affermò. “E non faccio eccezione per nessuno, ma proprio per nessuno,” concluse fissando Sam il Rosso.
“Avete sentito di quel delinquente ch’è evaso, il Balordo?” domandò la nonna.
“Non mi meraviglierei neanche un po’, se assaltasse questo locale,” dichiarò la padrona. “Se viene a sapere che esiste, non mi meraviglierei proprio di vederlo arrivare. Se viene a sapere che ci sono due cents nel registratore, non mi sorprenderebbe che …”
“Basta,” fece Sam il Rosso. “Porta le Coca-Cola a questi signori.” E la donna si allontanò, per andare a prendere il resto delle ordinazioni.
“Gente per bene non se ne trova più,” sospirò Sammy il Rosso. Il mondo sta diventando impossibile. Io ricordo i tempi in cui si poteva uscire lasciando la porta aperta. Adesso, mica si può più.”
Lui e la nonna parlarono di tempi migliori. La vecchia signora disse che, a suo parere, la colpa di tutti i guai presenti era dell’Europa. “Da come si comporta l’Europa, si direbbe che siamo fatti d’oro,” affermò. E Sam il Rosso rispose che era inutile parlarne, che la signora aveva perfettamente ragione. I bambini corsero fuori, nel sole bianco, a guardare la scimmia sull’albero di saponaria che pareva di pizzo. Aveva il suo daffare a spulciarsi e ad addentare delicatamente gli animaletti a uno a uno, come se fossero squisiti.
Ripartirono nell’afa pomeridiana. La nonna si appisolava e si riscuoteva ogni pochi minuti, perché si udiva russare. Alla periferia di Toombsboro si risvegliò del tutto e le tornò in mente una vecchia piantagione che aveva visitato nella zona, da signorina. Disse che la villa aveva sei colonne bianche, sulla facciata, che si arrivava per un viale di querce e che ai lati dell’ingresso c’erano due pergole di legno gemelle, dove si vedeva con lo spasimante, dopo una passeggiata in giardino. Lei ricordava benissimo che strada bisognava fare per arrivarci. Sapeva che Bailey non era disposto a perder tempo per visitare una vecchia villa, ma più se ne parlava più le veniva voglia di rivederla e di scoprire se le piccole pergole erano ancora in piedi. “V’era un ripostiglio segreto, in quella casa,” proseguì, dicendo una bugia, ma desiderando che fosse la verità. “E, a quanto si racconta, tutta l’argenteria di famiglia fu nascosta là dentro, al passaggio di Sherman, ma non venne mai più ritrovata.”
“Ehi,” esclamò John Wesley. “Andiamo a vedere! Noi la troveremo! Chi ci abita? Dove si volta? Ehi, papà, non possiamo andarci?”
“Non abbiamo mai visto una casa con un ripostiglio segreto!” squittì June Star. “Andiamo alla casa col ripostiglio segreto! Ehi, papà non possiamo andare alla casa col ripostiglio segreto?” “Non è molto lontano di qui,” assicurò la nonna. “Non ci metteremo più di venti minuti.” Bailey guardava dritto davanti a sé. Aveva la mascella rigida come un ferro di cavallo. “No,” disse.
I bambini cominciarono a urlare e a strepitare che volevano vedere la casa col ripostiglio segreto. John Wesley prese a calci lo schienale anteriore e June Star si aggrappò alla spalla della madre frignandole come una disperata in un orecchio che non si divertivano mai, neanche in vacanza, che non potevano mai fare quello che volevano. Il pupo si mise a strillare e John Wesley tirava calci così forti allo schienale che suo padre sentiva i colpi nelle reni.
“E va bene!” urlò Bailey, fermando la macchina sul ciglio della strada. “La piantate, tutti quanti? La piantate per un secondo? Se non la piantate non si va da nessuna parte.” “Sarebbe molto educativo, per loro,” mormorò la nonna.
“E va bene,” si arrese Bailey. “Ma, intendiamoci, questa è l’unica volta che ci fermiamo per una cosa del genere. La prima e l’ultima.”
“La strada sterrata che devi prendere è un miglio più indietro,” l’informò la nonna. “L’ho notata passando.”
“Una strada sterrata …” gemette Bailey.
Quando ebbero fatto dietrofront, mentre tornavano verso la strada sterrata, la nonna ricordò altri particolari della villa: la splendida vetrata della porta d’ingresso e il candelabro del vestibolo. John Wesley osservò che probabilmente il ripostiglio segreto era nel caminetto. “Non si può entrare in quella casa,” disse Bailey. “Non sappiamo chi ci abita.”
“Mentre voi parlate con i padroni sulla porta, io vado sul retro ed entro da una finestra,” propose John Wesley.
“Resteremo tutti in automobile,” annunziò sua madre.
Imboccarono la strada, e la macchina avanzò rapida, a scossoni, in un vortice di polvere rosa. La nonna ricordò i tempi in cui non c’erano strade asfaltate e per far trenta miglia si viaggiava un giorno. La strada passava sulle colline, fra paludi improvvise e curve brusche, a filo di scarpate pericolose. D’un tratto, erano su un cocuzzolo e vedevano, sotto di loro, le cime azzurre degli alberi per miglia intorno, e un attimo dopo erano in un avvallamento rosso, con alberi vestiti di polvere che li guardavano dall’alto.
“Sarà bene che questa villa si decida a saltar fuori, se no io torno indietro”, minacciò Bailey.
La strada appariva come se nessuno ci fosse passato per mesi.
“Non è molto lontana,” assicurò la nonna, e mentre parlava le venne un pensiero spaventoso. Era un pensiero così imbarazzante che diventò rossa in faccia, le si dilatarono gli occhi e i piedi le scattarono su, rovesciando la valigia nell’angolo. Nell’istante in cui la valigia si muoveva, il coperchio di giornale che la nonna aveva sistemato sul paniere si alzò, e con un miagolio furibondo Pitty Sing, il gatto, balzò sulle spalle di Bailey.
I bambini furono proiettati sul pavimento; la loro madre, avvinghiata al pupo, venne scagliata fuori dalla portiera, sulla terra nuda; e la nonna finì sul sedile anteriore. La macchina rotolò una volta su se stessa e cadde, col fianco destro all’insù, in un fosso parallelo alla strada. Bailey rimase al posto di guida, con il gatto – un soriano grigio dal largo muso bianco e dal naso arancione – appeso al collo come un bruco.
Appena i bambini si accorsero di poter muovere le gambe e le braccia uscirono dalla macchina strillando: “Abbiamo avuto un incidente!” La nonna, raggomitolata sotto il cruscotto, sperava di essere ferita, di modo che la collera di Bailey non l’investisse tutta in una volta. Il pensiero spaventoso che le era venuto prima dell’incidente era che la villa, di cui si ricordava in maniera così vivida, non fosse in Georgia ma nel Tennessee.
Bailey si strappò il gatto dal collo con tutt’e due le mani e lo scaraventò fuori dal finestrino, contro un fusto d’abete. Poi uscì dall’automobile e si mise a cercare la madre dei bambini. Era seduta contro una sponda del fosso di terra rossa, col pupo urlante in braccio, ma aveva solo un taglio su una guancia e una spalla rotta. “Abbiamo avuto un incidente,” gridavano i bambini, in una frenesia d’esultanza.
“Ma non è morto nessuno,” osservò June Star, delusa, mentre la nonna usciva zoppicando dalla macchina, col cappello ancora appuntato in testa, ma con l’ala rotta audacemente piegata sulle ventitré e il mazzo di violette penzoloni da una parte. Gli adulti si sedettero nel fosso, per riprendersi dallo spavento. Tutti tremavano.
“Forse passerà una macchina”, disse la madre dei bambini con voce rauca.
(Racconto tratto da Tutti i racconti, vol. primo, pp. 132-148, Bompiani, Milano 1990; trad. di Ida Omboni)