Daniela Notarbartolo
27 Gennaio 2019This is the page
27 Gennaio 2019da “Vagabondaggio” (1887)
Novelle di Giovanni Verga
All’Assise discutevasi una causa capitale. Si trattava di un facchino che per gelosia aveva ucciso il suo rivale, giovane dabbene e padre di famiglia. La folla inferocita voleva far giustizia sommaria dell’assassino, pallido e lacero dalla lotta, che i carabinieri menavano in prigione. La vedova dell’ucciso era venuta, come Maria Maddalena, per chiedere giustizia a Dio e agli uomini, in lutto, scarmigliata, coi suoi orfani attaccati alla gonnella, mentre l’usciere andava mostrando ai signori giurati l’arma con cui era stato commesso l’omicidio: un coltelluccio da tasca, poco più grande di un temperino, di quelli che servono a sbucciare i fichidindia, ancora nero di sangue sino al manico. Il presidente domandò:
– Con questo avete ucciso Rosario Testa? –
Tutti gli occhi si volsero alla gabbia dov’era rinchiuso l’imputato, un vecchio alto e magro, dal viso color di cenere, coi capelli irti e bianchi sulla fronte rugosa. Egli ascoltava l’accusa senza dir verbo, col dorso curvo; e seguiva cogli occhi l’usciere, il quale passava dinanzi al banco dei giurati col coltello in mano. Soltanto batteva le palpebre, quasi la poca luce che lasciavano entrare le persiane chiuse fosse ancora troppo viva per lui.
Alla domanda del presidente si rizzò in piedi, diritto, col berretto ciondoloni fra le mani, e rispose:
– Sissignore, con quello -.
Corse un mormorio nell’uditorio. Era una giornata calda di luglio, e i signori giurati si facevano vento col giornale, accasciati dall’afa e dal brontolio sonnolento delle formule criminali. Nell’aula c’era poca gente, amici e parenti dell’ucciso, venuti per curiosità. La vedova, stral’unata, si teneva sul viso il fazzoletto orlato di nero, e faceva frequentemente un gesto macchinale, come per ravviare le folte trecce allentate, colle mani bianche, levando in aria le braccia rotonde, con un moto che sollevava il seno materno, orgoglio della sua bella giovinezza vedovata. E fissava sitibonda sull’uccisore gli occhi arsi di lagrime.
Costui non sapeva risponder altro che: – sissignore – a tutte le domande del presidente che gli stringevano il capestro alla gola, guardando inquieto i movimenti d’indignazione dei giurati, non avvezzi alla severa impassibilità della toga, con un’aria di bestia sospettosa. Incominciò la sfilata dei testimoni, tutti a carico. – Gli amici del morto, un buon diavolaccio, incapace di far male ad una mosca, – la vedova piangeva. – I vicini che l’avevano visto barcollare, come preso dal vino, e cadere balbettando: – Mamma mia! – Quelli che avevano gridato: – All’assassino! – Il coraggioso che aveva afferrato pel petto l’omicida, prima che giungessero le guardie, nella brusca e feroce lotta per lo scampo.
– Giustizia! giustizia! – gridava nella folla la vedova, colla voce del sangue che chiedeva sangue, accompagnata dal piagnisteo degli orfani, inteneriti dalla solennità.
Infine fu introdotto un testimonio sinistro, l’amante che quei due uomini si erano disputata a colpi di coltello: una creatura senza nome, senza età, quasi senza sesso, alta, nera, magra, mangiata dagli stenti e dal vizio, che solo le era rimasto vivo negli occhi arditi. – Destò un senso di ripugnanza al solo vederla. – Il pubblico accusatore l’aveva fatta venire appunto per ciò.
Ella si piantò tranquillamente in faccia al Cristo, alla legge, a tutti quei visi arcigni, colla sicurezza di chi ha visto in maniche di camicia gli sbirri e i doganieri, e giurò, levando la mano sudicia e nera verso il crocifisso d’avorio, come avrebbe fatto una vergine dinanzi all’altare, baciando lo scapolare bisunto che trasse dal seno cascante.
– Come vi chiamate?
– La Mal’erba -.
E siccome l’uditorio, nell’attesa tragica, s’era messo a ridere, quasi per ripigliar fiato, ella soggiunse:
– Anche lui, gli dicevano Malannata -.
E indicò l’imputato nel banco.
– Di chi siete figlia?
– Di nessuno.
– Quanti anni avete?
– Non lo so.
– Che professione fate? –
«Essa parve cercare la parola.»
– Donna di mondo, – disse infine.
Scoppiò un’altra risata nell’uditorio. Il presidente impose silenzio scampanellando.
– Sì, donna di mondo, – ribatté lei per spiegarsi meglio. – Ora con questo, e ora con quell’altro.
– Basta, abbiamo capito, – interruppe il presidente.
– Conoscete da molto tempo l’imputato?
– Sissignore. Questo qui me l’ha fatto lui, tre anni sono -.
E indicò fieramente uno sfregio che le segnava la guancia, dall’orecchio sinistro al labbro superiore.
– E non ve ne querelaste?
– No. Era segno che mi voleva bene.
– Foste presente all’uccisione di Rosario Testa?
– Sissignore. Fu alla Marina: il giorno di tutti i Santi.
– E ne sapete il motivo?
– Il motivo fu che Malannata era geloso…
– Geloso di Testa?
– Sissignore.
– E a ragione?
– Sissignore -.
Allora la vedova si celò il viso fra le mani.
– Com’è possibile che Rosario Testa, giovane, marito di una bella donna, gli desse ragione d’essere geloso… per voi?
– Com’è vero Dio, questa è la verità, – rispose la Mal’erba.
– Va bene, continuate.
– Avevo conosciuto quel poveretto… il morto, prima di quest’altro cristiano, molto tempo prima, prima ancora che si maritasse. Allora mi chiamavano la Mora dei Canali, Rosario Testa faceva il fruttaiuolo, lì alla Peschiera. Era un libertino, buon’anima. Le lavandaie dei Canali, le serve che venivano a far la spesa, con quella sua galanteria di far regali, se le pigliava tutte. Ma per me specialmente ci aveva il debole, ché una volta alla festa dell’Ognina gli ruppero la testa per via di un marinaio ubriaco che mi voleva. Poi seppi che si maritava e mutava vita. Andò a stare a San Pl’acido col suo banchetto. Né visto né salutato. Io mi misi con Malannata, sì, ch’erano i giorni del colèra.
Buon uomo anche lui, buono come il pane, e se lo levava di bocca, quel poco che guadagnava, per darlo a me. Ma geloso come il Gran Turco: «Dove sei stata? Cosa hai fatto?» E poi si picchiava la testa con un sasso, pentito delle botte che mi dava. Quell’annata del colèra, che tutti scappavano via e si moriva di fame davvero, egli voleva anche mettersi a beccamorto, per non farmi fare la mala vita, col castigo di Dio che si aveva addosso. Si lasciava morire di fame piuttosto che mangiare del mio guadagno.
Sì, glielo dico in faccia, ora che l’avete a condannare, perché questa è la verità dinanzi a Dio. Mi diceva, poveretto: «No, non me ne importa. E’ che penso al come lo guadagni, questo pane, e non posso mandarlo giù». Ma io che potevo farci? Poi lui lo sapeva che cosa io ero. «Non importa», tornava a dire: «almeno non ci voglio pensare». Ma aveva i suoi capricci anche lui, come una donna, e certuni non me li voleva attorno. Allora diventava come un pazzo; si strappava i capelli e si rosicava le mani, perché non era più giovane. Quando mi vedeva insieme al doganiere del molo, che era un bell’uomo, colla montura lucida, mi diceva: «Vedi questo quattrino arrotato, che io tengo in tasca apposta? con questo ti taglierò la faccia, e dopo m’ammazzo io». E lo fece davvero. Io gli dissi: «Che serve? Ora che m’avete sfregiata nessuno mi vorrà, e non sarete più geloso» -.
S’interruppe, con un orribile sorriso di trionfo, guardando sfrontatamente in giro il presidente, i giurati, i carabinieri, cinghiati di bianco, incrociando sul petto il vecchio scialle, con un gesto vago.
– Ma non fu così, signor presidente. Mi volevano ancora, per sua bontà. Già gli uomini, sono come i gatti…
– E anche Rosario Testa? –
Ella chinò il capo, assentendo, due o tre volte, con quel sorriso.
– Sissignore, anche lui! –
La vedova adesso la guardava cogli occhi ardenti e feroci, le labbra pallide come le guance.
– V’ho detto ch’era un discolo, buon’anima. E anch’io, al rivederlo, mi sentivo tutta fiacca, come m’avesse fatto bere. Dicevo di no, perché Malannata era lì vicino, a scaricar zolfo nel magazzino dietro la Villa, e tante volte mi aveva detto lui pure: «Bada che se torni con Rosario, vi faccio la festa a tutti e due». Ma l’amore antico non si scorda più, vossignoria!
– Basta. Dite come avvenne l’omicidio.
– Così, come ve lo dico adesso, signor presidente, col coltello dei fichidindia, quello lì.
– Testa era armato?
– Lui? povero ragazzo! Mi aveva invitato a’ fichidindia, una galanteria delle sue, lì, al banco di Pocaroba, che ce li ha di quelli di Paternò, sino a Natale. Pocaroba dice: «Badate che Malannata è in sospetto. L’ho visto che si affaccia ogni momento alla porta del magazzino, e tien d’occhio compare Rosario». E Testa: «Lasciatelo guardare, compare Pocaroba, che me ne rido di Malannata e del suo santo». Allora lasciai stare i fichidindia, e cercavo di condurmi via l’altro; quand’ecco quel cristiano lì correre dall’arco della ferrovia, tutto bianco di zolfo, e cogli occhi come uno che ha bevuto, e in due salti ci fu addosso; afferrò il coltello, dal banco dei fichidindia, prima di dire Gesù e Maria…
– Accusato, avete qualche cosa da aggiungere?
– Nulla, signor presidente. Questa è la verità sacrosanta -.
Allora sorse il pubblico accusatore, togato e solenne, a malgrado della nota mondana dell’alto colletto inamidato che gli usciva dal nero della toga; e fulminò il reo colla sua implacabile requisitoria, facendo inorridire i giurati col quadro del vizio abbietto che vive nel fango dei bassi strati sociali, per dar l’orrido fiore del delitto, senza neppure la febbre della giovinezza, della passione o dell’onore, senza nemmeno la scusa della tentazione o della gelosia. – Il vizio che vive del disonore ed osa ribellarvisi col delitto -. E stendeva verso quel grigio capo avvilito l’indice minaccioso, dallunghia rosea e lucente.
Le signore, che dovevano alla sua galanteria i posti riservati dell’aula, rianimavano la loro indignazione col profumo della boccetta di sale inglese, soffocate dall’afa; e i larghi ventagli si agitavano vivamente a scacciare il lezzo immondo della colpa, come farfalle gigantesche. Poscia il magistrato si assise tranquillamente, ringraziando, con un impercettibile sorriso, all’applauso discreto di quei ventagli che s’inchinavano, ponendosi sul viso il fazzoletto di battista. Solo l’imputato non aveva caldo, seduto sulla sua panchetta, col dorso curvo, il viso color di terra rivolto verso tutte quelle infamie che gli rinfacciavano.
A sua volta prese a parlare l’avvocato. Era un giovane di belle speranze, delegato d’ufficio dal presidente a quella difesa senza compenso. Egli sfoderò gratuitamente tutte le sue brillanti qualità oratorie. Esaminò lo stato psicologico e morale degli attori del lugubre dramma; sciorinò le teorie più nove sul grado di responsabilità umana; argomentò sottilmente intorno alle circostanze di fatto, per farne risultare tutto ciò che occorreva a dimostrare la provocazione grave e l’ingiuria. Qui veniva a taglio una pittura commoventissima di quella morbosa gelosia senile, che doveva avere tutti gli strazi e le collere furibonde dell’umiliazione e dell’abbandono. Sì, egli lo sapeva, non erano le coscienze di uomini onesti, vissuti nel culto della famiglia, resi più sensibili dagli agi, che avrebbero potuto scendere negli abissi di quei cuori tenebrosi e di quelle infime esistenze per scoprire il movente di certe delittuose follie. Forse soltanto il sentimento più delicato e immaginoso di quelle dame eleganti, avrebbe potuto sorprendere il tenue filo per cui si legano i fatti più mostruosi al sentimento più nobile in quegli animi rozzi. Egli seguì cotesta fatale concatenazione che c’è fra tutti i sentimenti e le azioni umane con una analisi così acuta, che più di un onesto padre di famiglia sentì turbata la sua digestione dallo smarrimento della colpa, mentre era lì, seduto a giudicare, pensando al ricolto del podere, o al fresco del terrazzino dove lo stava aspettando la famigliuola. Per poco non si udirono degli applausi alla perorazione dell’avvocato. Lo stesso presidente gli fece velatamente i mirallegro.
– Accusato, avete nulla da dire a vostra discolpa? – conchiuse il presidente.
L’accusato si alzò di nuovo, colle braccia penzoloni, lungo la sua stecchita persona, e un gesto vago dell’indice, come d’uomo persuaso di quel che dice.
– Signor presidente, ho ucciso Rosario Testa, devo andare a morte anch’io, com’è scritto nella legge, e va bene. La Mal’erba, poveretta, è quella che è, e anche ciò va bene. Ma quando me la lasciavano sulla panchina del molo come una scarpa vecchia, chi andava a dirle una buona parola ero io; e a chi ella diceva una buona parola quando aveva il cuore grosso, ero io pure. Gli altri, pazienza, oggi questo, domani quell’altro; le buttavano dei soldi e delle male parole, ed essa non ci pensava più. Ma Testa, nossignore! Essa quando era stata con lui, mi ritornava a casa tutta sossopra, cogli occhi che pareva ci avesse la luminaria dentro. Io glielo aveva detto a Testa: «Guarda che a te non te ne importa. Tu ci hai moglie e figliuoli; ma io non ho che questa qui, Testa!» –
Poi tornò a sedersi, accennando ancora del capo, mentre la Corte si ritirava per deliberare. E rimase immobile, nell’ombra, aspettando il suo destino. Era venuta la sera. La folla s’era diradata, e nella sala accendevano il gas. Infine squillò di nuovo un campanello, e comparvero di nuovo le stesse toghe nere, le stesse facce pallide e stanche che guardavano l’imputato. Egli non capiva nulla delle frasi che borbottavano in mezzo a quella folla, nell’ombra. Intese solo il presidente che pronunziava la condanna: – A vita! –
E si alzò un’ultima volta, barcollando sulle gambe, accennando sempre coll’indice quel gesto vago ch’era tutta la sua eloquenza, e balbettò:
– Io glielo avevo detto a colui, signor presidente -.