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27 Gennaio 2019Una rivolta dimenticata: le insorgenze antigiacobine in Italia
di Roberto Persico
«Insorgenze» vengono chiamate dagli storici non conformisti, ossia non di parte, i moti di popolo che dal 1787 al 1815 accompagnarono, contrastandole vivacemente, le imposizioni manu militari giacobine d’oltralpe e domestiche, che si ammantavano sotto l’usbergo della rivoluzione «dei lumi». Esse costituiscono solo la punta di un iceberg, tuttora sommerso, che la dottrina ufficiale e di corte ha rimosso o ha trascurato con l’intento di frantumarne o marginalizzarne il peso, se non addirittura demonizzarlo.
In tutto il nostro Paese, dalla Sardegna fino ai territori della Savoia e del Tirolo, più di 300mila italiani mossero in armi (ed ebbero non meno di 100mila morti) per «difendere le loro patrie, i loro ideali, la loro religione, i loro sovrani, le loro cose, in una parola, la loro civiltà», come efficacemente ricorda Massimo Viglione nel suo libro Rivoluzione e controrivoluzione pubblicato nella collana «Faretra» delle edizioni Ares, Associazione di ricerche e studi di Milano.
La stessa Ares con la Regione Lombardia e con il patrocinio della Provincia di Milano ha organizzato e tenuto un qualificato convegno di studio il 25 e 26 novembre scorsi nella capitale lombarda per affrontare in modo non settario, ma aperto ed articolato, il tema della «Crisi dell’antico regime e costituzione del nuovo ordine sociale».
Ne scriviamo perché la questione è di straordinaria attualità. Essa investe il nodo culturale, etico-pubblico e politico, della formazione del nostro Stato nazionale, delle sue interne complessità e ne chiarisce la fondante caratteristica repressiva, anche se vissuta e tramandata con accenti liberali, più estorti che reali.
Lo stesso uso del plurale per parlare di «insorgenze» comporta un rischio e malcela una malizia. Nel periodo che in questo articolo ci riguarda, si trattò di un rifiuto di massa, interclassista, di una generale rivolta contro principi confusi e male applicati di egualitarismo e di sanguinanti utopie, di ipertrofia burocratica, di cancellazione della religione come senso comune e critico dell’esistente in cambio di una società nella quale l’uomo finisce nell’annegare nell’universale razionalista. Pur con tutte le necessarie diversificazioni, la «Grande Rivoluzione francese del 1789» e «gli Immortali principi» dell’illuminismo si tradussero per l’Italia napoleonica in queste drammatiche conseguenze. Né si dica che il termine «philosophe» col quale si drappeggiò il personale illuminista costituì di per sé un lasciapassare, un passe-partout asseverativo di fede democratica. Fior di sovrani assolutisti, dalla Prussia a San Pietroburgo, amavano letterariamente definirsi «philosophe» alla moda di Voltaire e Rousseau, pur continuando nella pratica del proprio governo domestico a schiacciare plebi e a sfruttare nazionalità oppresse.
«L’insorgenza» delle drammatiche giornate di Verona, del 17-25 aprile del 1797, la «Pasqua veronese», non può essere riduttivamente e sbrigativamente ritenuta un evento regressivo o legittimista. Le migliaia di insorti della valle Imagna, della Vai Brembana, della Vai Seriana che ebbero a capo due sacerdoti, don Filippi e don Ussoli, non meritarono di certo la brutale fucilazione immediata dettata, senza processo, dal Bonaparte in persona di tutti gli aristocratici coinvolti. I più di 6Omila morti tra gli insorti del 1799 contro la Repubblica giacobina napoletana e contro l’esercito francese del generale Championnet non sono da annoverare in modo dispregiativo come «lazzari» senza cultura e assetati di sangue: assai più complessa è la formazione ideologica, la rappresentatività delle loro ragioni, le finalità istituzionali e sociali del loro movimento. Il fatto che sia stato un cardinale di Santa romana Chiesa a guidare la rivolta dal basso, il fatto che il principe di Bagnara, cardinale Fabrizio Ruffo, si fosse pressoché spontaneamente posto alla testa dei rivoltosi (che dai 6 uomini divennero poi migliaia nella marcia iniziata dalla Calabria) non può autorizzare a liquidare come «reazionario» l’intero movimento. Non erigo feticci, stimolo a penetrare gli eventi e analiticamente considerarli, partendo dalla realtà. Il fatto che anche recentemente, ossia nella primavera scorsa, il Corriere della Sera abbia dedicato all’argomento una logorroica pagina culturale contro «il sanfedismo», autorizza a pensare che la questione vera viene così strumentalmente esorcizzata, a vantaggio di un progressismo di maniera.
Dalla Calabria al Valdarno ad Arezzo si è trattato, innanzitutto, della rivolta di classi subalterne o di ceti professionali e di mestiere espropriati dai diritti faticosamente conquistati contendendoli a imperatori, re, principi e granduchi con i quali non furono mai perfetti la concordanza e l’unisono. Non è un caso che il re borbone minacciasse di morte proprio il cardinale Ruffo che gli aveva restituito un regno, ma che si oppose, lui vincitore, ad impiccare un vinto, l’ammiraglio Francesco Caracciolo. Tortuose, e quindi ancora da decifrare con lo studio, sono le vie della formazione dello Stato italiano. Tante sono le implicazioni, che non appartengono più solo al passato ma che si riverberano sul presente, nel crescente distacco fra istituzioni e governati, nell’arroganza dei potenti, nella fragilità delle regole della democrazia.
Un convegno come quello dell’Ares ripropone il tema, largamente rimosso, del modo e del processo della formazione unitaria del nostro Stato. La verità è che l’Italia, nel confronti con l’Europa, è quella le cui fondazioni sono tra le più repressive, in cui il giacobinismo ha giocato un ruolo di integrazione stato-nazione fra i meno partecipativi.
E’ certamente strano scovare argomenti al di là dalla barricata. Ma è pur vero che fu proprio Antonio Gramsci, comunista in catene, a dare il giudizio più severo sul Risorgimento e dubitare profondamente della qualità intellettuale di un Mazzini, di un Garibaldi, di un Pisacane. Gramsci aveva, evidente mente, le sue discutibilissime ragioni. La prova in gran parte fallita da parte dei liberali e del Partito dazione, anticipò Gramsci nei suoi Quaderni da. carcere, sta nella sottovalutazione di un fatto strutturale spirituale: la questione cattolica. Si manifesta, cioè, con la sottovalutazione di quelle «masse eterogenee», continua Gramsci «i cui vari elementi sono destinati a prendere ciascuno la sua strada a mano a mano acquistino coscienza di sé e dei loro reali interessi». Senza forzare alcunché, «l’insorgenza» costituì palesemente l’occasione unificante che la vulgata corrente del Risorgimento ha trascurato e che comunque pesa come uno squillante anello mancante. La circostanza che di recente, l’Istituto Gramsci, cioè il più attrezzato pensatoio comunista, abbia aggiornato la propria opinione sul tema dell’insorgenza, induce, senza esaltarci, a bene sperare circa la possibilità di un riesame di tante ristrettezze occlusive nel disegno della storia nazionale di ieri, e soprattutto di oggi. Nessuno, e lo scrivente meno di altri, idolatra il Dio-mercato, anzi colgo il contraddittorio assalto del liberalismo alla religione, intesa come senso comune critico dell’esistente. Che questi principi anticentralisti siano stati innalzati da «masse eterogenee» dalla «populace», plebaglia alla francese, più che da gruppi illuminati, induce a pensare, a riflettere, in maniera pluralistica, a meditare con spirito aperto.
Massimo Caprara, La rivoluzione passata sotto silenzio, Il Giornale 28/11/99
Audio Lezioni di Storia moderna e contemporanea del prof. Gaudio
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