“The strange case of Dr. Jekyll and Mr. Hyde”by Robert Louls Stevenson
27 Gennaio 2019Gabriele D’Annunzio
27 Gennaio 2019Tesina interdisciplinare su Auschwitz
di Massimo Lio – 20/05/2006
ANNETTE WIEVIORKA
AUSCHWITZ SPIEGATO A MIA FIGLIA”
Mathilde, figlia di Annette, rimane scioccata vedendo sullavambraccio di Berthe, amica di famiglia deportata nel campo di Auschwitz, un numero tatuato con inchiostro azzurrognolo. Inizia a porre delle domande alla madre, tra le quali:
1. Era doloroso il marchio sul braccio?
2. Che cosa facevano i tedeschi con gli ebrei? Chi sbrigava il lavoro?
3. Perché si parla soprattutto di Auschwitz?
4. Cosa avevano fatto gli ebrei? Per quale motivo i tedeschi volevano sterminare tutti gli ebrei fino all’ultimo?
A queste domande poste dalla giovane tredicenne, la scrittrice risponde:
1. Il marchio non procurava molto dolore fisico ma morale perché privava il deportato del proprio nome. Nulla è più nostro” scrive Primo Levi in Se questo è un uomo” e continua dicendo Si immagini ora un uomo a cui venga tolto tutto ciò che possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente a chi ha perso tutto, di perdere se stesso”. Il marchio sul braccio può essere paragonato, parzialmente, all’alienazione del lavoro, intesa da Marx: il capitalismo rende l’uomo una merce, lo spersonifica, lo aliena dalla realtà, proprio come il numero”.
Primo Levi, ne I sommersi e i salvati”, afferma: L’operazione era poco dolorosa e non durava più di un minuto, ma era traumatica. Il suo significato simbolico era chiaro a tutti: questo è un segno indelebile, di qui non uscirete più; questo è il marchio che si imprime agli schiavi ed al bestiame destinato al macello, e tali voi siete diventati. Non avete più nome: questo è il vostro nuovo nome. La violenza del tatuaggio era gratuita, fine a se stessa, pura offesa: non bastavano i tre numeri di tela cuciti ai pantaloni, alla giacca ed al mantello invernale? No, non bastavano: occorreva un di più, un messaggio non verbale, affinché l’innocente sentisse scritta sulla carne la sua condanna. […] A distanza di quarant’anni, il mio tatuaggio è diventato parte del mio corpo. Non me ne glorio né me ne vergogno, non lo esibisco e non lo nascondo. Lo mostro malvolentieri a chi me ne fa richiesta per pura curiosità; prontamente e con ira a chi si dichiara incredulo. Spesso i giovani mi chiedono perché non me lo faccio cancellare, e questo mi stupisce: perché dovrei? Non siamo molti nel mondo a portare questa testimonianza”: è qui molto chiara la necessità di testimoniare l’accaduto e verrà ripreso più avanti.
2. Arrivati al campo di concentramento pochi continuavano per un tratto a piedi fino ai block che li avrebbero ospitati; la maggioranza saliva su dei camion, che li conduceva in dei fabbricati dove venivano fatti spogliare e portati in locali simili a docce. In questi locali veniva immesso il gas letale, Zyklon B. I loro corpi venivano poi bruciati in forni crematori. La selezione”, così veniva chiamata la scelta fra chi entrava nel campo in quanto abile al lavoro” e chi andava al gas”, veniva coordinata da medici nazisti. Erano invece i detenuti del Sonderkommando” coloro che dovevano bruciare i corpi.
3. Auschwitz è diventato il lager più tristemente famoso per diversi motivi: è sicuramente il campo con il maggior numero di morti (oltre 1 milione di vittime); parimenti è il campo con il maggior numero di sopravvissuti ad aver fornito testimonianze; inoltre è tristemente noto che Auschwitz sia stato l’unico lager in cui il numero di identità del detenuto veniva inciso nelle carni.
4. La storica risponde alla domanda della figlia dicendo Nulla” e poi continua affermando che la vittima, benché innocente, si sente colpevole. Ancora una volta è molto importante il pensiero di Primo Levi. Egli dice che i salvati” soffrono perché ora che sono liberi si rendono conto di aver vissuto per mesi come animali e in qualche modo si sentono colpevoli per non aver fatto niente o non abbastanza contro il sistema in cui erano assorbiti. Un’altra causa della vergogna” delle vittime è il rendersi conto di aver mancato sotto l’aspetto della solidarietà umana. In effetti la regola principale del Lager era quella di badare prima di tutto a se stessi; ma il fatto di aver cambiato le proprie regole morali e di essere stati ridotti all’egoismo più assoluto sarà sentito per sempre come una colpa.
Inoltre il fatto di essere sopravvissuti fa sempre pensare che forse sei vivo al posto di un altro”,
Levi infatti dice che i salvati non erano i migliori; di solito sopravvivevano i peggiori, gli egoisti, gli insensibili, i collaboratori, le spie; è stato un caso fortuito se è capitato ad altri di essere salvati.
Infine i sopravvissuti sentono la vergogna del mondo” , cioè il dolore per le colpe che altri hanno commesso: soffrono perché si rendono conto che il genere umano, di cui fanno parte, è capace di costruire una mole infinita di dolore.
Insomma essi provano un senso di vergogna, di abbattimento generale, di disagio, che dura nel tempo e in molti casi porta, subito o più avanti, al suicidio, come è successo a Primo Levi. I nazisti non li accusavano di nessun crimine in particolare, ma semplicemente di essere quel che erano, ebrei. Lantisemitismo in Germania crebbe a dismisura dopo la sconfitta del 14 – 18; sentimento alimentato dal senso di umiliazione inferto dal trattato di Versailles, dall’effetto della disoccupazione, dalla perdita del valore economico della propria moneta. Agli ebrei venne addossata, per la maggior parte dalla destra, la responsabilità di tutti quei mali, convinta che il Paese fosse vittima di un complotto ebraico internazionale (ecco perché lo scopo di Hitler era quello di sterminare tutti gli ebrei d’Europa, effettuando una vera e propria sterilisatio magna).
Il tema di Dio: assente, ma
Un punto cruciale della vita nei campi di concentramento che la storica polacca non esamina è sicuramente l’esperienza spirituale, l’esistenza divina in quell’inferno irrazionale.
Ne La Notte” Elie Wiesel analizza il problema e si chiede: Dov’è Dio?”; è ovvio che con superficialità chiunque risponderebbe: Dio? Ma non esiste, non può esistere!”. Eppure qualcosa che dimostri l’esistenza di Dio in quei luoghi c’è stato; sarebbe più corretto parlare di qualcuno: Massimiliano Kolbe (figura 3).
Figura 3: padre Massimiliano Maria Kolbe
Il 17 febbraio 1941, padre Kolbe fu arrestato dalla Gestapo e incarcerato nel Pawiak di Varsavia. Maltrattato e percosso perché rifiutava di abbandonare il Crocifisso che portava al collo, costretto ad indossare un abito civile perché il saio francescano adirava i suoi carcerieri, il 28 maggio Massimiliano fu deportato nel campo di sterminio di Auschwitz. Fu messo insieme agli ebrei perché sacerdote, con il numero 16.670, e costretto ai lavori più umilianti, come il trasporto dei cadaveri al crematorio. Torturato, privato del nome e del titolo di uomo, padre Kolbe non perse mai il senso della propria dignità. Quando l’avevano arrestato, aveva esclamato: Ringraziamo l’Immacolata che ci ha aperto le porte di questa nuova missione, perché se avessimo voluto venire qui non ce l’avrebbero permesso!”. Nel campo si sottoponeva alle più pesanti fatiche, cercando di aiutare tutti e di portare conforto a chi aveva perso ogni speranza; nonostante la sua malferma salute, spesso donava agli altri le sue già scarse razioni di cibo.
Alla fine di luglio fu trasferito al Block 14, dove i prigionieri erano addetti alla mietitura dei campi; uno di loro riuscì a fuggire e, come rappresaglia, il comandante Fritsch decise di condannare 10 prigionieri dello stesso blocco a morire di fame e di sete nel sotterraneo della morte. Alcuni di quei condannati dimostrarono notevole coraggio, gridarono Viva la Polonia”; ma uno di loro, il giovane sergente polacco Francesco Gajowniczek, cadde in ginocchio. Mia moglie! I miei figli!” piangeva. A questo punto, padre Kolbe capì doveva intervenire rapidamente: lentamente, con umiltà, uscì dalle file dei prigionieri, si presentò al comandante Fritsch e, togliendosi il cappello, disse: Vorrei prendere il posto di quell’uomo!”. Il comandante rimase sconcertato e turbato di fronte a quel gesto per lui incomprensibile: Ma tu… chi sei?”
Un prete cattolico”.
Sta bene. Accetto!”
Così, padre Kolbe scese con gli altri 9 nel sotterraneo della morte, consolandoli, assistendoli e benedicendoli. Li invitava a cantare, a lodare Dio. Un po’ alla volta, tutti si rassegnarono alla loro sorte e morirono ad uno ad uno, pregando, mentre le loro voci oranti si riducevano sempre più. Dopo 14 giorni solo 4 erano ancora in vita, fra cui padre Kolbe. Giacché la cosa stava andando troppo per le lunghe, le SS decisero di finirlo con un’iniezione di acido fenico. Il frate francescano tese volontariamente il braccio, mormorando: Ave Maria”; furono le ultime sue parole. Era il 14 agosto 1941, vigilia dell’Assunta. Il giorno successivo, il suo corpo fu bruciato nel forno crematorio e le sue ceneri sparse al vento.
Il 10 ottobre 1982, in piazza San Pietro a Roma, il suo concittadino e Papa, Giovanni Paolo II, lo proclamò Santo come martire della carità, dichiarando che San Massimiliano non morì, ma diede la vita…”.
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