Storia della Mafia e origine della parola
28 Dicembre 2019Diario clandestino di Giovannino Guareschi seconda parte
28 Dicembre 2019Testo del brano:
1) Lettera del 12 agosto. di Werther al suo amico Wilhelm (Guglielmo)
12 agosto
Indiscutibilmente Alberto è l’uomo migliore del mondo. Ieri ho avuto con lui uno scambio di opinioni piuttosto singolare. Sono andato da lui per prendere commiato, perché mi aveva preso la voglia di fare un giro a cavallo fra i monti, da dove ti sto scrivendo in questo istante, e mentre vado su e giù per la stanza, mi cadono improvvisamente sotto gli occhi le sue pistole.
«Prestami le pistole per il mio viaggio,»
dissi. «Per me,» disse, «se ti prendi la briga di caricarle. Qui da me stanno appese solo per bellezza.» Ne staccai una, e lui continuò: «Da quando la mia prudenza mi ha giocato un bruttissimo tiro, non voglio più aver a che fare con quella roba lì.»
Ero curioso di conoscere la storia. «Per tre mesi e più,» raccontò, «mi sono trattenuto presso un amico in campagna; avevo un paio di terzette scariche e dormivo tranquillo e beato. Una volta, poi, un pomeriggio piovoso, costretto all’ozio, non so come mi salta in mente che avremmo potuto essere assaliti, che avremmo potuto avere bisogno delle terzette e che…, insomma, sai com’è. Così le diedi al servo da pulire e da caricare, e questo si mette a scherzare con le serve, vuole spaventarle, e Dio sa come, l’arma spara mentre c’è ancora dentro la bacchetta, la bacchetta va a conficcarsi nella mano destra di una serva e le fracassa il pollice.
Mi toccò sopportare non solo gli strilli ma anche le spese per la cura, e da allora lascio scariche tutte
le armi. Eh, caro mio, quando si dice che la prudenza non è mai troppa! Non si sa mai dov’è il pericolo! Cioè…» ora tu sai che quell’uomo mi è molto caro in tutto tranne che per i Johann Wolfgang Goethe – I dolori del giovane Werther suoi cioè, dato che va da sé che ogni principio ammette delle eccezioni.
Com’è pignolo quell’uomo! Quando pensa di aver detto qualcosa di troppo affrettato, di generico,
approssimativo, ecco che poi non la smette più di riassestare, di modificare aggiungendo,
togliendo, fino a che di una cosa non resta più niente. E in questa occasione esagerò la dose, io non lo stavo più nemmeno a sentire, fui preso dai miei soliti ghiribizzi e, con un gesto inconsulto, mi premetti la canna della pistola contro l’occhio destro.
«Ehi,» disse Alberto tirandomi giù la pistola, «che ti piglia?» «Tanto non è carica,» dissi io. «E con ciò? che ti piglia?» replicò spazientito.
«Non riesco a capire come un uomo possa essere così scemo da spararsi, solo a pensarci vado in bestia.»
«Ma è mai possibile,» esclamai io, «che voi uomini, per poter parlare di una cosa, dobbiate sempre dire: questo è stupido, questo è ragionevole, questo va bene, questo va male? Che significa tutto ciò? Avete forse individuato una volta per tutte i rapporti interdipendenti di un’azione? Sapete dunque dipanare con chiarezza le cause che l’hanno provocata, per le quali doveva accadere? Se fosse così, non sareste così sbrigativi con i vostri verdetti.»
«Mi concederai,» disse Alberto, «che certe azioni rimangono riprovevoli qualunque sia il motivo che le ha messe in moto.»
Feci spallucce e gli detti ragione. «Però, caro mio,» continuai, «anche qui esistono delle eccezioni. È vero che rubare è un peccato, ma l’individuo che va a rubare per salvare sé e i suoi da un’imminente morte per fame, si merita pietà o castigo? Chi oserà mai scagliare la prima pietra contro un marito che, in un accesso di legittima ira, sacrifichi la sua donna adultera e il suo ignobile seduttore? contro la ragazza che in un momento di smarrimento passionale si perda negli incontenibili piaceri dell’amore? Persino le nostre stesse leggi, così insensibili e pedanti, si commuovono e perdonano.»
«Ma questa è una cosa completamente diversa,» replicò Alberto, «perché un uomo trascinato dalle sue passioni perde ogni controllo e deve essere considerato come un ubriaco, un pazzo.»
«Ah, voi, gente così ragionevole!» gridai ridendo. «Passione! Alcolismo! Pazzia! Come ve ne state comodamente rilassati, voi, così senza essere coinvolti, voi uomini morali! Strapazzate l’ubriacone, disprezzate colui che ha perduto la ragione, passate via come il prete e come il fariseo, ringraziate Dio che non vi ha fatto come uno di loro. Io mi sono ubriacato più di una volta, le mie passioni non sono state molto lontane dalla pazzia e non me ne rincresce, perché nel mio piccolo sono riuscito a capire che tutti gli uomini straordinari, che hanno fatto qualcosa di grande, qualcosa che apparentemente sembrava
impossibile, sono stati da sempre tacciati da ubriachi e da pazzi.
«E anche nella vita di tutti i giorni non se ne può più di sentir gridare dietro a qualcuno che abbia fatto anche solo qualcosa di appena libero, nobile, inatteso: quello è ubriaco, è matto! Vergognatevi, voi sobri! Vergognatevi, voi sapienti!»
«Ecco che ci risiamo con i tuoi soliti grilli,» disse Alberto, «tu la fai sempre più grossa di quel che è, e in questo almeno hai torto marcio, nel paragonare il suicidio, che è questo di cui si sta parlando ora, a grandi imprese. Non si può considerare nient’altro che una debolezza, ecco. È certo più facile morire che sopportare con fermezza una vita tormentosa.»
Stavo per troncare la discussione, perché non c’è niente che riesca a mandarmi fuori dai gangheri come quando uno arriva lì e ti spiattella un insignificante luogo comune quando io invece sto parlando con il cuore in mano. Tuttavia sono riuscito a contenermi, perché quell’argomento l’avevo sentito spesso di già e ancor più spesso me ne ero indignato, e ho ribattuto con una certa animosità: «E tu la chiami debolezza? Ti prego, non lasciarti ingannare dalle apparenze. Un popolo che geme sotto l’insopportabile giogo di un tiranno, puoi chiamarlo debole se, finito di fermentare, finalmente esplode e spezza le
catene? Un uomo che, vedendo la sua casa invasa dal fuoco per lo spavento sente tendersi tutti i nervi e trascina via senza fatica pesi che a mente fredda non riuscirebbe nemmeno a spostare; uno che nel furore dell’onta subita si scaglia su sei e li sopraffà, questi qui possono mai dirsi deboli? E, accidenti, se lo sforzo è energia, perché lo straforzo dovrebbe essere il contrario?»
Alberto mi ha guardato e ha detto: «Non volermene, ma mi sembra che gli esempi che mi stai facendo qui non c’entrino proprio.» «Può anche essere,» dissi, «me lo si è gia rimproverato spesso che il mio modo di associare le idee sfiora il delirio. E allora guardiamo un po’ se in un altro modo riusciamo a immaginarci che cosa prova quello che prende la decisione di sbarazzarsi del fardello, di solito gradito, della vita. È solo nella misura in cui proviamo gli stessi sentimenti che abbiamo il diritto di parlare di
una cosa.
«La natura umana,» continuai, «ha i suoi limiti: può sopportare gioia, dolore e affanno fino a un certo grado e crolla appena esso viene superato.
Qui non si tratta più, dunque, di sapere se uno è debole o forte, bensì se è in grado di sopportare il peso del suo dolore, non importa se morale o fisico, e trovo che sia altrettanto stravagante dare del
codardo a colui che si toglie la vita, quanto sarebbe bizzarro dare del codardo a colui che
muore di febbre maligna.»
«Paradosso! che paradosso!» esclamò Alberto. «Non quanto credi,» replicai io. «Mi concederai che noi chiamiamo malattia mortale quella che attacca la natura in modo tale da distruggere in parte le sue energie, in parte da metterle fuori uso, cosicché essa non è più capace di rimettersi in sesto, di riprodurre con una felice rivoluzione il consueto corso della vita.
«E ora, mio caro, applichiamo per esempio questo allo spirito. Considera l’uomo nella sua limitatezza, come le impressioni agiscano su di lui, e le idee gli si radichino dentro, sino a che una passione in crescendo gli strappi ogni capacità di discernimento e lo travolga una volta per tutte.
«È inutile che l’uomo calmo e ragionevole cerchi di capire lo stato di quello infelice, inutile che gli dia dei consigli. Proprio come uno sano al capezzale di uno ammalato: non può trasfondere in lui nemmeno una stilla delle sue energie.»
Secondo Alberto tutto ciò era troppo generico. Gli ricordai una ragazza che era stata trovata annegata qualche tempo prima, e gli ripetei la sua storia. «Una creatura giovane, mite, che era cresciuta nello stretto ambiente delle occupazioni domestiche, del lavoro scandito esattamente giorno dopo giorno, che non aveva nessun’altra prospettiva di svago se non passeggiare la domenica con le amiche fuori porta, con dei vestitini messi insieme un po’ per volta, forse partecipare a un ballo nelle grandi solennità, e per il resto passare qualche ora a chiacchierare con una vicina di un bisticcio o di qualche pettegolezzo,
mettendoci tutto l’ardore di una cosa presa di petto…
Un essere la cui natura focosa incomincia finalmente a sentire bisogni più intimi, accresciuti dalle galanterie degli uomini; i suoi piaceri di prima le diventano sempre più insipidi, fino a che non incontra un
uomo dal quale è attratta da un sentimento irresistibile, sul quale ora ripone tutte le sue speranze, fino a dimenticare il mondo intero; non sente niente, non vede niente, non prova niente per altri che lui, l’unico, non brama che lui, l’unico.
Non corrotta dalle vuote smancerie di una volubile vanità, il suo desiderio l’attira verso un solo scopo, diventare sua, legarsi eternamente a lui per cogliere quella felicità che le manca, godere all’unisono di tutte le gioie per le quali sospira. Promesse ripetute, che le suggellano la certezza di realizzare ogni speranza, carezze audaci che accrescono la sua voglia, imprigionano a poco
a poco la sua anima; ondeggia in una coscienza offuscata, in un presentimento di tutti i piaceri, è tesa al massimo grado. Poi slancia finalmente le braccia per stringere tutti i suoi desideri – e il suo amante l’abbandona. Impietrita, incapace di intendere, è sospesa sull’orlo di un abisso; tutto è tenebra attorno a lei, nessun futuro, nessun conforto, nessuna risorsa! perché lui l’ha lasciata, lui che era il solo a dare un senso alla sua vita. Non vede il vasto mondo che le sta davanti, e neanche i numerosi uomini che potrebbero rimpiazzare quello che ha perduto, si sente sola, abbandonata dal mondo intero – e accecata, incastrata nella tremenda angoscia del suo cuore, si butta giù, per soffocare tutti i suoi tormenti nelle fluttuanti spire della morte. – Vedi, Alberto, questa è la vicenda di molta gente, e di’ un po’,
non è la stesa cosa anche per la malattia? la natura non trova nessuna via d’uscita dal
labirinto delle energie obnubilate e in conflitto fra di loro, e l’uomo deve morire.
«Guai a chi può assistere a una cosa simile e dire: povera pazza! se avesse aspettato, se avesse lasciato tempo al tempo, la disperazione si sarebbe certo placata, avrebbe certo trovato un altro per consolarla. Il che sarebbe come dire: povero pazzo, guardalo, muore di febbre! se avesse aspettato di recuperare le forze, che i suoi umori fossero risanati, il tumulto del sangue placato, sarebbe andato tutto bene, e lui adesso vivrebbe ancora!»
Alberto, al quale il paragone non era ancora del tutto chiaro, mi fece qualche obiezione, osservando fra l’altro che avevo parlato soltanto di una sempliciotta, che lui non capiva come si sarebbe potuto perdonare a un uomo intelligente, che non fosse così limitato ma capace di una visione più complessa e interdipendente delle cose, di… «Amico mio,» esclamai, «l’uomo è uomo, e quel po’ di intelligenza che uno può o non può avere, conta poco o niente quando la passione infuria e lui si trova spinto agli estremi della natura umana. Tanto più che… ma ne parleremo un’altra volta,» dissi; e presi il mio cappello. Oh, avevo il cuore che scoppiava e ci lasciammo senza esserci capiti. Come di solito capita a questo mondo nessuno comprende facilmente l’altro.
da I dolori del Giovane Werther https://www.writingshome.com/ebook_files/163.pdf